Le bambine e i bambini, percepiscono lo spazio come noi?
Quando parliamo di casa e spazio abitato, spesso tendiamo a ragionare esclusivamente dal punto di vista di noi adulti. Eppure questi ambienti sono fruiti e condizionano anche i più giovani. Noi percepiamo lo spazio e l’ambiente attorno a noi attraverso schemi mentali, tecniche vere e proprie di vedere e sentire, che abbiamo acquisito nei primissimi anni di vita. Quando i bambini vedono ombre e pensano siano un mostro, è perché la loro mente non elabora subito l’informazione come noi adulti, che escludiamo a priori l’esistenza di creature malvage dentro la nostra realtà. Eppure il nostro Io più profondo le vede quanto i bambini e sarebbe importante che provassimo a limitare occasionalmente il nostro pensiero logico-deduttivo, per comprendere cosa sente invece in nostro corpo.
Proprio per questa fondamentale differenza percettiva, dobbiamo evitare di cadere nel pregiudizio che identifica l’ambiente domestico come luogo più sicuro per far permanere i nostri bambini. Infatti molti bambini non si sentono “al sicuro” neppure nella loro casa, perché magari le luci e ombre, forma, scale, ambienti della stessa, creano in loro un senso di disagio, che invece noi adulti, sapendo appunto di essere in un ambiente protetto, ignoriamo. Lo stare in uno spazio limitato, soprattutto se presenta elementi non adeguati, tende inoltre a creare effetti più duraturi sui bambini. Con una valutazione di tipo psicogenealogico sull’abitare, infatti, si rileverebbe come la casa dell’infanzia sia quella che maggiormente condiziona la creazione della nostra psiche.
I bambini si confrontano con l’esterno in modo pre-organizzato: sono iper impegnati fuori casa con sport, doposcuola, laboratori, che permettono di stare con i coetanei e far attività costruttive, ma non hanno abbastanza tempo per imparare ad auto-gestire e analizzare i contesti un cui si muovono. Molti bambini ad esempio, non vanno quasi mai nei parchi, al mare o in campagna, e la loro conoscenza dell’ambiente naturale è relegata ai mezzi informatici e uno o due periodi di ferie annuali. I bambini di oggi sono poco inclini alla gestione della noia e al cosiddetto otium, il non aver niente da fare, che è il primo stimolo alla creatività. Inoltre i nostri figli, quelli italiani in particolar modo, a causa di una cultura che elogia l’iperprotezione, crescono spesso molto insicuri, indecisi e incapaci di relazionarsi e interagire con gli spazi naturali.
Il lockdown è stato una situazione emergenziale che ha generato gravi effetti sulla psicologia degli adulti, ma ancora di più su chi ancora sta formando il suo mondo psichico e relazionale.
In quest’ultimo anno sono stati fatti vari studi e ricerche sull’effetto delle quarantene su bambini e adolescenti. Se da un lato la mancanza di relazioni sociali con i coetanei ha impattatto sulle capacità di comunicazione ed espressione, dall’altro l’isolamento fisico e spaziale, ha peggiorato le cose. A livello sociale, i più grandi hanno trasferito le proprie comunicazioni su internet, attraverso i devices, compromettendo solo in parte la capacità comunicativa. Quello che si è perso in settimane e/o mesi di chiusure, è il linguaggio non verbale, la capacità di comunicare non solo a parole, ma anche visivamente. Il distanziamento fisico, soprattutto per chi è in età prescolara, ha precluso l’educazione tattile e ha privato i bambini della fondamentale necessità di contatto. Con il contatto, infatti, i più piccoli ricevono molte più informazioni sensoriali di quante ne percepiamo noi, già abituati ad escludere quelle superflue. Non poter abbracciare, stringere, confrontarsi con adulti e coetanei, è un grosso limite per la fruizione completa della realtà “al di fuori”.
Per moltissimi anche la qualità del sonno è peggiorata, con un 20% di bambini e 55% di adolescenti che segnalavano fatica ad addormentarsi e riposare bene. In questa situazione solo la comunicazione costante ed empatica con i familiari, e il tempo passato con i genitori, soprattutto per i più piccoli, sembra essere stato l’unico salvagente al peggioramento dello stato psicologico, in un contesto di incertezza (in gran parte per colpa dell’allarmismo dei media) e percezione di reclusione.
Molti genitori non hanno mai vissuto la campagna o gli spazi poco antropizzati. Chi è cresciuto nelle metropoli fatica a comprendere cosa possa mancare ai propri figli in termine di percezione della naturalezza.
I nuclei familiari più fortunati sono stati quelli senza gravi problemi economici e residenti in zone suburbane o di campagna. La sola presenza di un giardino, o ancora meglio di campi o boschi attorno a casa, è stata l’unica scappatoia dei giovani allo spazio chiuso. Questo ha creato delle evidenti disuguaglianze sociali a ricaduta psicologica, in cui il ceto medio alto con una casa e un fondo di proprietà, ha potuto vivere la quarantena come delle ferie forzate, al contrario di chi era recluso in appartamenti metropolitani, in cui spesso mancava persino la terrazza.
Molti genitori si sono resi conto di quanto la loro abitazione sia inadatta, proprio nel momento in cui si sono trovati obbligati a rimanervi confinati. Soprattutto chi è sempre vissuto in un contesto fortemente antropizzato, raramente si interroga sulla necessità di esposizione agli spazi verdi. La neuropsicologia evidenzia da anni come proprio la vegetazione e la Natura aiutino sia i processi rigenerativi del corpo, che l’equilibrio e la calma mentale. Il silenzio nelle metropoli, il coprifuoco, la comparsa di animali prima invisibili nelle città, hanno fatto interrogare molti sul bisogno ignorato di un contesto differente. Non a caso nel 2021 vi è stato un boom del mercato immobiliare per le case in montagna e al mare: chi se lo poteva permettere, col dubbio del “e se succedesse di nuovo”, si è infatti organizzato per non essere obbligato a rimanere vincolato alle città.
Un effetto positivo del lockdown è stata la creazione di una nuova sensibilità verso lo stare all'aperto e il liberarsi dalle mura domestiche.
Anche i più amanti della vita a domicilio si son ricreduti, nel momento di dover stare sempre nella propria casa. Questo per un semplice fattore che solitamente non teniamo in considerazione: gli adulti, impiegati nel mondo del lavoro, stanno pochissimo nella propria abitazione. Quindi a molti piace stare oziosamente a casa propria, perché è un breve distacco dal mondo esterno. Calcolando la settimana lavorativa standard, 40 ore su 5 giorni, spesso oberata anche di lavoro straordinario, aggiungendo eventuali spostamenti e commissioni, per un minimo di 2-3 ore, togliendo le 6-8 ore giornaliere di sonno, abbiamo la stima del tempo medio passato in casa durante la settimana: meno di 8 ore. Passare da queste cifre, alla presenza costante nello stesso luogo, ha creato non pochi disagi soprattutto in case (o in un contesto) non salubri.
Non a caso, oltre all’italica panificazione, il periodo delle quarantene ha portato alla scoperta o riscoperta dell’home gardening, generando nuove passioni per le piante e il giardinaggio in generale. Questo perché è completamente sparita per mesi la seppur ridotta fruizione degli spazi verdi. Noi abbiamo istintivamente e profondamente bisogno di connetterci alla Natura. Facciamo in modo di ignorarlo, di non percepirlo come una reale necessità, quando il contesto socio-ambientale ce lo impedisce. Ma i bambini, che non sono condizionati quanto noi dalle sovrastrutture culturali o dal senso del dovere, lo sentono profondamente e molte loro forme di disagio sono dovute anche alla difficoltà di richiedere ai tutori di soddisfare questa necessità o all’effettiva impossibilità di farlo.
Invogliare i bambini al gioco manuale, alla creatività e allo studio, è un'ottima via per aiutarli nello sviluppo di competenze ed equilibrio psicologico, ma non basta.
Chiaramente cercare di mantenere all’interno della propria abitazione il livello più basso possibile di tecnologia, evitando domotica wireless, devices h24 e quanto altro, è un punto a favore per uno sviluppo psicomotorio armonico dei bambini. L’inquinamento elettromagnetico, oltre a creare disagi fisici immergendoci in campi di radiazioni costanti, tende a influenzare anche la soglia di attenzione e benessere psicologico. Il Parlamento Europeo già nel 2011 chiedeva agli Stati membri di ridurre alla soglia legale di CEM (campi elettromagnetici) a 0,6 Volt/metro e di portarla nel tempo a 0,2 V/m per gli ambienti dedicati a bambini e giovani. A livello precauzionale ciò veniva definito poiché si riscontra una maggior predisposizione a forme di tumorali, nei bambini sottoposti a costante esposizione elettromagnetica. In Italia la normativa sul tetto massimo di inquinamento elettromagnerico invece è di 6 V/m: per comprendere la scala, uno smartphone a 10 cm emette dai 2 ai 6 V/m.
La domotica, inoltre, inibisce l’essere umano dall’uso stesso della manualità, cosa che invece ci ha permesso di evolverci come specie fino al livello attuale. Se da un lato quindi l’utilizzo della tecnologia semplifica le attività routinarie considerate noiose o lunghe, dall’altro questa deresponsabilizzazione sta creando un’involuzione delle capacità tecniche personali. Avere robot che cucinano, avere robot che puliscono, avere computer a cui si può parlare e dar ordini, impedisce di utilizzare il problem solving, ovvero la nostra fantastica dote di interazione, comprensione e trasformazione dello spazio e dei materiali attorno a noi per risolvere delle necessità. Risulta quindi facile comprendere perché se per un adulto la cosa può apparire utile e di sollievo quasi, in un bambino che dovrebbe sfruttare al massimo le proprie potenzialità per diventare un Sapiens funzionale, inibisca la sua comunicazione e interazione con il reale.
La manipolazione, il contatto con textures e materiali differenti, nuovi e salubri panorami olfattivi, sono fondamentali per la salute di chi è in fase di crescita.
In Natura, infatti, nulla è automatizzato. Tutti i processi che vediamo o a cui partecipiamo hanno un tempo organico ben definito, obbligano all’attesa, e quindi permettono anche di comprendere quanto sia fondamentale imparare a ritardare la soddisfazione di un bisogno se le condizioni ci obbligano. Questo è una cosa importante per poter poi in età adulta gestire correttamente le forme di stress e ansia. Il tempo “virtuale”, quello creato da un mondo sempre più digitalizzato, è invece un tempo rapido e non adeguato alla nostra fisicità. Probabilmente non adeguato agli organismi viventi in generale. In Natura non vi sono i limiti spaziali che abbiamo in qualsiasi luogo chiuso, e riceviamo molti più input ambientali. Gli stimoli sensoriali sono estremi e inaspettati, e variano tra quelli piacevoli e spiacevoli a seconda di cosa ci circonda. Il pro dell’ambiente naturale è il connubio tra una grande quantità di informazioni da elaborare (quindi stimolo per il cervello) e i ritmi armonici e organici (che permettono di entrare meglio in risonanza con lo spazio).
La maggior parte dei medici ha finalmente cominciato a sconsigliare l’uso di dispositivi elettronici ai bambini in età prescolare: con l’utilizzo precoce, è stato riscontrato anche da parte del WHO (OMS), si rischiano forme di disconnessione dalla realtà, e altri comportamenti disfunzionali legati alla mancanza di educazione alla spazialità e manipolazione. L’esposizione prolungata agli schermi e all’uso di smarphone e tablet porta il rischio dello sviluppo di problematiche come l’iperattività e una bassa soglia di attenzione. Invece di confrontarsi con dei ritmi naturali, il bambino finisce per apprendere i ritmi istantanei della tecnologia, cercando di replicare con insuccesso gli stessi pattern anche nella vita reale.
L'esplorazione di spazi sconosciuti, soprattutto quando ricchi di vegetazione e stimoli, è una delle vie preferenziali per lo sviluppo del cervello.
Perché quindi ci sentiamo a disagio nel lasciar esplorare il mondo ai nostri figli? Perché la città è pericolosa. Per molte e molti pensare di lasciare i propri bambini da soli fuori casa è impossibile. Questo perché sono persone che vivono in spazi pieni di auto, pieni di persone educate solo alla propria autotutela, strade e marciapiedi coperti di artefatti potenzialmente dannosi e fuori controllo. Vivere con la costante attivazione di risposta al pericolo, ci fa proiettare le nostre paure sui potenziali rischi della prole, e finiamo per applicare gli stessi comportamenti anche in contesti sicuri, come un parco giochi recintato, un campo o persino un bosco pianeggiante.
Ho avuto la fortuna di far passare a mia figlia i primi anni di vita in un piccolo contesto rurale montuoso, anche se non continuativamente. La possibilità di camminare per le strade vuote, di muoversi e giocare sotto la pioggia con gli amici, di esplorare in autonomia i boschi sicuri, le ha dato una sicurezza di controllo sull’ambiente esterno che manca spesso a chi deve costantemente essere monitorato dai genitori, per i pericoli delle città. Come per l’educazione outdoor e per la pedagogia montessoriana, non vi è nulla di più sano per un bambino che l’esplorazione autonoma e la consapevolezza della propria presenza nello spazio.
Le quarantene ci hanno reso prigionieri delle nostre insicurezze, abbiamo spostato il disagio quotidiano dal confronto con un mondo troppo veloce e iperstimolante, a un uso ossessivo dei social e dei mezzi digitali. Se la creazione di una routine è stato dimostrato abbia avuto comunque un effetto positivo sui bambini, come mezzo per limitare il senso di incertezza, ha però generato l’effetto collaterale della perdita di coordinazione dovuta alla sedentiarietà. Le dirette conseguenze sono state un aumento di quasi tre volte degli accessi al pronto soccorso per fratture o cadute, con la perdita dei riflessi e l’irrigidimento muscolare. Sia la mente sia il corpo migliorano all’aperto, muovendosi liberamente, potendo delegare alla nostra scelta personale la direzione e qualità dell’esplorazione dello spazio.
Per noi figli di una società industriale, la riscoperta o la permanenza in Natura, è la prima fonte di salute mentale e fisica.
Per questo è ora più che mai fondamentale portare i bambini fuori dalla propria casa. Non basta solo togliere l’inquinamento elettromagnetico e la dipendenza tecnologica, è importante permettere loro di scoprire luoghi, la flora e la fauna, le differenti consistenze e materialità, gli odori e le forme organiche. Chiaramente con questo non intendo che dovremmo scappare tutti in campagna, come già discusso in questo articolo, ma che dovremmo imparare a vivere meggiormente i parchi o le aree verdi suburbane. A livello urbanistico, inoltre, queste zone abbandonate dalle persone sono diventate generatori di entropia, trasformandosi da luogo di attrazione sana a vuoto marginale, pericoloso in quanto tale.
Ogni ambiente nuovo o percezione inattesa, in modo esponenziale nei bambini, crea nel cervello connessioni neurali. Questo perché lo spazio sconosciuto ci obbliga a comprendere il luogo, definirne i confini, valutare la possibilità di percorsi al suo interno. Siamo finalmente lontani dall’idea della medicina illuminista che vedeva il cervello, dopo il picco giovanile, decadere pian piano fino alla morte. Il nostro cervello continua a crescere e rinnovarsi anche in età adulta, e più stimoli positivi vengono introdotti, più questo processo avanza costantemente. La riduzione del rumore di fondo delle città, la vista della vegetazione, persino la mitigazione climatica in estate, sono tutti fattori che permetto un miglioramento del nostro equilibrio fisico e interiore. Non preoccupiamoci di far rotolare i bambini nel fango, farli giocare sotto la pioggia, farli correre e cadere, arrampicarsi, esplorare, anche rischiare punture di insetto (salvo le allergie individuali, in Italia abbiamo una quantità bassissima di insetti e aracnidi velenosi!). In questo modo l’ambiente entra in loro quanto loro entrano nell’ambiente. La consapevolezza dei propri limiti e potenzialità, completamente mistificata e alterata da una vita di relazioni sempre più virtuali, nasce proprio da questo: dalla nostra scoperta dell’ambiente da cui anche noi abbiamo avuto origine.