Quasi la metà dei cittadini europei vive in condominio.
Dal tempo in cui l’antica Roma organizzò le sua urbanistica con le insulae, anche nella penisola italica ci si adeguò all’idea dell’alloggio come complesso di una o più stanze private in agglomerati di edifici comuni. Le insulae si distinguevano da altri inurbamenti arcaici simili, come le case collettive o le case addossate, perché furono direttamente progettate con la funzione di ospitare il maggior numero di persone, nel modo più efficiente possibile allo spazio disponibile. Con il ‘900 e le progettazioni dei quartieri operai, l’idea di appartamento divenne centrale per la storia delle abitazioni, in quanto simbolo di un nuovo modo di vivere in città e nelle prime aree suburbane. Una ricerca Eurostat del 2019, ha evidenziato come in Europa quasi la metà dei cittadini abbia scelto proprio questo tipo di residenza. Le percentuali però variano molto di Stato in Stato, con una Lituania che vede il 66% della popolazione in appartamento e all’opposto l’Irlanda che ne ha solo l’8%. L’Italia si trova in posizione leggermente superiore alla media europea, con circa il 53%.
Cosa rappresenta per noi il condominio? Se la casa singola, la classica villa o abitazione completamente indipendente, rispecchia maggiormente la nostra proiezione individuale nello spazio, con uno spazio privato interno e uno esterno, con maggior respiro, il condominio crea invece l’effetto alveare. Infatti il nostro cervello è portato ad adeguarsi alla massa, un po’ per pigrizia e poca propensione alle novità, ma soprattutto perché siamo creature sociali, e quindi adeguarci a ciò che è comune ci aiuta a sentirci sicure. Questo antichissimo meccanismo di auto-tutela del gruppo, rimane ancora molto radicato nella nostra struttura logico-emotiva, e molte delle scelte che compiamo nella nostra vita, anche da chi si ritiene asociale o antisociale, di fatto aderiscono a questo pattern di ragionamento.
Sul lungo periodo, chi vive in grandi blocchi condominiali, tende a sviluppare due opposte tensioni:
- Necessità di uniformarsi
- Senso di competizione per distinguersi
Una situazione simile emerge anche nei maggiori agglomerati di case a schiera, ma il condominio crea dei nuclei sociali uniformi, spesso non coscienti di esserlo. Nella struttura vivono persone di estrazione sociale simile e che gravitano nelle stesse aree urbane. Risulta quindi comune una sorta di omeostasi in cui nessuno nel condominio risulta particolarmente deviante, poiché se così fosse verrebbe in un certo senso spinto ad allontanarsi dal sistema stesso. Non è un caso che molti condomini vengano abitati anche da colleghi, oppure interi nuclei di persone che provengono dalle stesse aree geografiche. Questo succede sia nei condomini di extra lusso, sia nelle case popolari, ma ovviamente con le necessità e problematiche di due classi sociali differenti.
Il pregio del condominio, è spesso dovuto ad una valutazione funzionale al luogo di lavoro o delle scuole. Tuttavia a volte si scende a compromessi non sempre ideali.
Ad esclusione di città in cui la dominanza di grattacieli non permette l’esistenza di altre tipologie abitative, chi vive in città minori spesso può scegliere tra casa e appartamento. Risulta interessante notare come la scelta del condominio sia da un lato economica, ma dall’altro soprattutto collegata alla volontà di non trovarsi troppo lontano dal lavoro o dalle scuole. Se si prendono in considerazione le quotazioni immobiliari di una città italiana maggiore, la differenza del costo tra centro e prima periferia, va dai 1000 ai 2500€ al mq. Provando a fare un conto su una casa standard di 80 mq, parliamo quindi di un risparmio dagli 80 ai 200 mila euro. Perché quindi le persone tendono a preferire i condomini al centro piuttosto che vivere più distanti, ma con case più riservate e proporzionalmente economiche?
- Abitudine ad assegnare un valore di prestigio, che viene percepito come successo personale, nel vivere in centro città.
- Mancanza di mezzi di trasporto di proprietà, e mancanza di adeguati sistemi di trasporto pubblico.
- Vicinanza ai servizi.
In Italia, alla data pre-covid del 2019, vi erano 33 milioni di pendolari. Quindi più della metà dei cittadini viaggiavano per oltre 20 minuti per raggiungere il luogo di studio o lavoro. Molti non su lunghe tratte, ma nei grandi centri urbani. Lo stress da pendolarismo è una condizione riconosciuta: traffico, rumore, calca, imprevisti, sono tutte situazioni che sul lungo periodo minano il nostro equilibrio psicologico. Molti dei più comuni sintomi di malessere di chi vive in città, sono collegati a questo stress sul breve e lungo periodo, e non ce ne rendiamo conto perché si tratta di una routine socialmente accettata. Per tale ragione, non essendoci finora da parte delle istituzioni alcun interesse a favorire il trasporto sotenibile (bicicletta, e-car sharing, autobus e treni) l’unica soluzione risulta quella di vivere nelle aree di produzione/istruzione, e quindi per la maggioranza nei centri cittadini.
Questa dinamica di accettazione inconsapevole, è condizionata da usi e costumi, e quindi le persone preferiscono vivere congestionate in centro, piuttosto che dover allungare i tempi di percorrenza provenendo dalle aree periferiche o suburbane. A causa delle infrastrutture più ci si allontana, più si corre il rischio che ritardi e problemi crescano in modo esponenziale e inoltre la maggiore distanza rappresenta costi di trasporto in più, e costo umano di ore non retribuite, se pensiamo ad un pendolarismo lavorativo. Ma vivere una situazione non ideale in casa, per avere una parvenza di sicurezza di puntualità, è una dinamica corretta per il nostro fisico?
Il rumore è una delle tipologie di inquinamento principale quando si vive in condominio.
Chiunque abbia vissuto in condominio, soprattutto se proveniente da situazioni abitative differenti, come primo trauma ha scoperto il rumore. Anche nell’ipotesi dei vicini più rispettosi possibili, i differenti ritmi di vita, la presenza di animali e bambini, le abitudini di pulizia e frequentazioni di chi ci vive a fianco o sopra, condizionano il nostro silenzio. Nella classifica dei contenziosi di condominio, che tralaltro coinvolgono il 50% delle procedure civili in tribunale, al primo posto vi sono i rumori e gli odori, definiti immissioni. Le immissioni quindi sono tutte quelle fonti di disagio causate direttamente da altre persone. Solo al secondo posto emergono le allocazioni, quindi l’occupazione di spazi comuni utilizzati come fossero privati.
Ai rumori inaspettati, infatti, il condominio aggiunge spesso una percezione di cui solitamente non ci si rende conto: il conflitto di territorio. Nonostante la nostra iper-culturalizzazione, restiamo comunque degli animali molto affini ai pan, le scimmie maggiori, e quanto esse viviamo ancora lo stimolo naturale della necessità di avere un territorio a cui far riferimento per risorse e protezione. Potreste già aver sentito parlare dello spazio personale, quella misura minima attorno a noi oltre la quale proviamo fastidio vicino a sconosciuti. Questo spazio varia a seconda dell’individuo e così è anche per la percezione territoriale. Persone più socievoli e passive tendono a essere meno influenzate dall’idea che qualcuno stia invadendo il loro spazio vitale, mentre chi è meno socievole e aggressivo, solitamente tende a percepire qualsiasi posizionamento altrui come invasione del proprio spazio. Su questo sarebbe da ragionare a lungo, soprattutto riguardo alla costruzione e decostruzione dell’Ego e dei bisogni non primari, però per dirla semplice: più una persona si sente padrona del proprio spazio, più rischia di entrare in conflitto con i vicini che vengono percepiti come fruitori non autorizzati dello stesso, anche se comune a tutti per dei regolamenti.
In una situazione condominiale possiamo percepire la nostra casa invasa perché attraversata da decine di campi elettromagnetici provenienti dalle case dei vicini.
Oltre allo stress sociale, il condominio è anche una delle situazioni meno salubri per quanto riguarda l’inquinamento elettromagnetico. Con router sempre più potenti, per quanto uno in casa propria tenga sotto controllo la presenza di reti wireless e segnali bluetooth, raramente avrà a che fare con meno di 5 o 6 reti dei vicini. Nei condomini moderni con sistemi domotici, poi, la cosa può diventare esponenziale. Al momento, la ricerca scientifica non può dare esiti certi degli effetti a lungo termine di tale esposizione, ma come già accennavo in questo articolo molte istituzioni si son già interrogate sui limiti di tolleranza delle contaminazioni elettromagnetiche, per non parlare dell’elettrosensibilità che viene riconosciuta da sempre più persone (anche se al momento proseguono le ricerche per rilevarne l’effettivo inquadramento patologico).
Anche in contesti meno affollati è facile trovare segnali wifi altrui in casa, ma essendo un segnale che decade sulla distanza, riconosciamo un impatto molto più basso. Il problema dell’inquinamento elettromagnetico viene spesso tacciato di complottismo, evidenziando la non sussistenza del pericolo. Eppure recenti studi stanno scoprendo (o riscoprendo) come la nostra specie sappia percepire i campi magnetici, in particolar modo quello terrestre, ma ne abbia perso la percezione cosciente. Viene quindi da interrogarsi se la percezione geomagnetica e la percezione elettromagnetica non vadano di pari passo e quanto l’essere invasi da campi a frequenza variabile (quindi non solo per internet, ma la stessa impiantistica magari non ben isolata), possa influenzare anche la nostra stessa percezione dello spazio.
Più aumenta il numero di unità, più i problemi e i costi si espandono. Se a questo si aggiunge l'età degli edifici, si rischia di confrontarsi con abitazioni non adeguate neppure strutturalmente.
Ovviamente quanto descritto è proporzionale alla quantità di nuclei familiari presenti. Se una situazione di mini condominio (4-6 unità) può ricordare un po’ quella delle case a schiera, strutture più grandi possono configurarsi come vere e proprie mini-città, soprattutto nei quartieri popolari, con tutte le dinamiche attivabili. In queste situazioni è spesso difficile per i nuovi inquilini inserirsi, perché il condominio viene inteso come una sorta di proprietà collettiva in cui ognuno tende a riconoscersi come elemento fondamentale della stessa. Proprio questo senso di appartenenza, che atavicamente ricorda l’idea di tribù e più recentemente di villaggio, fa sorgere il conflitto di territorio, perché ognuno si sente un elemento della struttura stessa e quindi autorizzato al suo controllo.
Questa dinamica è scatenata però dalla mancanza di tale autorità: sapere di non poter intervenire sulla proprietà altrui. I disagi percepiti in un condominio raramente possono essere risolti dall’inquilino, sia perché spesso non sono evitabili, sia perché un intervento obbliga ad accordi tra più persone, ognuna con la propria individualità. Lo stress sociale che quindi si genera, dovrebbe far interrogare la persona sul suo livello di percezione della situazione (posso risolvere io il problema ed è un disagio che si può risolvere?) e su quanto la propria situazione possa abbassare la qualità della vita. In questo caso sarebbe importante comprendere se spostarsi verso un’area periferica, in un contesto non condominiale, potrebbe essere un miglioramento. Molti, infatti, mettendo pendolarismo e vita difficile a casa sui piatti della bilancia, comunque preferiscono subire le dinamiche condominiali: sfortunatamente il nostro cervello tende sempre a cercare giustificazioni per non modificare lo status quo, anche se a discapito della propria salute. Può capitare infatti, che inquilini infelici in condominio, spieghino l’impossibilità di cambiare portando come motivazione il fatto che una casa costa più di un appartamento, ma nella quasi totalità dei casi non hanno mai provato a valutare lo spostamento dalla zona in cui si trovano.
Nei centri storici o nelle zone suburbane, la condizione condominiale è peggiorata dall'addossamento tra edifici che soffoca gli affacci.
Stress acustico, conflitto di territorio e inquinamento elettromagnetico. Di base sono i tre rischi della vita in condominio. A questi bisogna però aggiungere una problematica legata particolarmente ai centri storici, ovvero i problemi di irraggiamento. Nelle città medievali e sfortunatamente anche nella nuova edilizia popolare, molto spesso non sono rispettati i parametri minimi di irraggiamento consigliato negli ambienti. Non prendo in considerazione i casi in cui una o magari due stanze ricevano poca luce, perché queste case vengono configurate per delegare a tali ambienti funzioni secondarie, bensì abitazioni che non vedono mai luce diretta. In tal caso il disagio aumenta perché ci si trova a dover combattere con i problemi strutturali dovuti a tale situazione (umidità, ristagni, basse temperature e muffe) e anche con l‘effetto sugli individui.
Una casa correttamente esposta e che quindi risulta adeguata alla nostra biologia, è una casa che permette di percepire il passare del tempo. Chi lavora in ambienti senza finestre, o dominati dalla luce elettrica, avrebbe una necessità maggiore di essere esposto almeno nella propria abitazione alla luce solare. Se questi ambienti, in certe zone calde, possono risultare più problematici da rinfrescare in estate, tuttavia sono gli unici che permettono al nostro corpo di percepire il tempo e regolare le funzioni organiche influenzate dal ritmo circadiano. Avere una casa non illuminata va sempre a discapito della nostra biologia, perché non permette al corpo di attivarsi correttamente. Un palliativo può essere l’uso di illuminazione “intelligente” quindi i nuovi sistemi LED che riconoscono l’orario e regolano automaticamente la luce a seconda della necessità, simulando l’illuminazione naturale. Ma non sempre basta: in abitazioni poco illuminate dalla luce naturale, o con esposizione esclusivamente a nord, si riscontrano maggiori casi di forme depressive e disturbi del sonno. Queste abitazioni si configurano po’ come le regioni più vicine ai Poli, che tendono a vivere lunghi periodi in un crepuscolo o notte costante, e creano gli stessi effetti sugli abitanti.
In contesti metropolitani, un balcone è spesso l'unico affaccio che permetta una percezione più ampia delle distanze. Più vediamo lontano, più il nostro cervello attiva progettazione e desideri.
I lockdown hanno fatto porre molte domande a chi vive in appartamento. Di colpo, persone abituate a vivere la propria vita per la maggior parte fuori casa, cosa che rendeva la propria abitazione comunque accettabile, si sono trovate a non volerci più stare. Quella situazione inaspettata ha modificato la percezione del proprio spazio, e alcune hanno deciso di traslocare non appena possibile. Vivere in appartamento e senza un reale affaccio o spazio esterno, è un grande limite imposto socialmente. Come specie non siamo fatti per vivere in cubi di cemento circondati dalle auto, eppure pochi si chiedono che pro e contro potrebbe avere una vita differente. Molto spesso chi se lo chiede non è chi può scegliere, ma chi per qualsiasi ragione non può scegliere, e si trova vincolato a un’ambiente in cui non si riconosce e non si sente protetto: quindi l’antitesi della casa.
Nella scelta di un’abitazione, o nella valutazione di un trasloco, non bisogna più guardare esclusivamente alla comodità dei servizi o al prestigio: queste sono solo convinzioni sociali a cui ci siamo adattate/i. Ovviamente a meno di non essere autosufficienti e avere necessità di trovare tutto a poca distanza! Per scegliere la casa giusta è importante che eventuali disagi causati dal vicinato siano minimi (sana convivenza) e che nella valutazione economica sia inserito anche lo spostamento e non solo la tipologia abitativa. Infatti è impossibile trovare una casa indipendente allo stesso prezzo di un appartamento e nella stessa zona, ma a volte pochi chilometri cambiano tutto e la qualità di vita ne migliora. Per cui il primo passo è chiedersi: sono felice in questa casa? Dove vorrei andare ad abitare? Cosa perderei e cosa guadagnerei? E a partire da queste poche domande, è possibile il vero cambiamento.